Perdere la cultura significa smarrire l’idea di quello che siamo. Diciamo basta alla banalizzazione delle nostre parole. Troppi termini inglesi a casaccio nelle nostre frasi
Il molto reverendo Carlin Porta diceva che le parole sono come i colori su di una tavolozza: possono mescolarsi in tanti modi e dar vita a una crosta come a un capolavoro. Dipende dal pittore. E la lingua è cosa importante: mica da scherzarci sopra. Oggi, purtroppo, anche la lingua appare afflitta dalla stessa malattia che indebolisce e stanca molti altri aspetti della civiltà e della cultura. Così, abbiamo pensato di proporre a voi lettori una serie di considerazioni che ci è venuto naturale di fare, su questo argomento: proveremo, insomma, a indagare le magagne che colpiscono il nostro linguaggio, i vezzi, i tic, le mode, le amplificazioni e le sottrazioni semantiche. Ma lo faremo alla nostra maniera: un po’ alla buona. Che non vuol dire alla carlona.
Cominciamo col dire che la nostra lingua ci sembra vittima di una pericolosa forma di bipolarismo: da una parte, utilizza termini complicati, spesso peregrini, talvolta inappropriati al contesto, con la stessa indifferenza con cui si utilizza il bollitore ogni mattina. Ovvero, si inseriscono nel discorso vocaboli che possiamo definire di moda: il cui uso è strettamente legato ad una stagione lessicale, finita la quale scompaiono o tornano nel dimenticatoio. Ci pare di poter dire che appartengano a questa schiera parole come “inclusivo” o “resilienza” o “condiviso”: vocaboli talmente abusati da procurare l’orticaria a chi sia aduso ad un utilizzo piano, pregnante, originale, della lingua. Oggi, per esempio, tutto ciò che è buono è anche resiliente: un bravo ciclista, come un politico ammirevole. Il termine ha origine tecnica e indica le capacità di resistenza dei materiali, ma, un poco alla volta, ha assunto valore maestro Marinelli e, in seguito, al Conservatorio di Milano; iniziò a insegnare nel 1925 e dopo la fine degli studi condusse in contemporanea anche l’attività di organista e compositore anche per teatro. Nel 1950 fu nominato insegnante di organo e composizione all’Istituto Donizetti e tornò stabilmente a Gazzaniga, dove morì nel 1966. Capire come sia entrato in contatto con gli ambienti del Ducato è impresa ardua, ma di certo in qualche modo devono aver contribuito Giacinto Gambirasio e Guerrino Masserini ( dei quali il Maffeis musicò alcuni brani), due delle penne dialettali e intellettuali di spicco dell’epoca, e Luigi Gnecchi, allora direttore del giornale, con il quale costruì un ottimo rapporto.
Alcuni suoi articoli giunsero anche nel Lecchese, dove ottenne una menzione speciale al Concorso Nazionale Giornalistico “Antonio Ghislanzoni” di Lecco. Gli articoli sono scritti con uno stile chiaro e un linguaggio semplice (ma non semplicistico) e lasciano trasparire da una lato la forte sensibilità verso il suo territorio, dall’altro l’amore verso il dialetto (ricorre spesso a espressioni in dialetto bergamasco) e della cultura bergamasca. Una vena ironica e leggera, quella del Maffeis, che ben si inserisce nella tradizione satirica del “Giopì”. Nei testi, Maffeis parla anche di sé e della propria musica, raccontando per esempio aneddoti biografici come gli incontri con Angelo Giuseppe Roncalli. Uno degli argomenti principali di DAMA, come suggerisce il titolo della sua rubrica, è appunto la musica: egli non parla solamente delle sue composizioni, ma come cronista e critico musicale scrive di esibizioni tenutesi in Bergamo e provincia e negli ambienti più svariati. Rigorosamente in terza persona, racconta del contesto favorevole che ha favorito la proposta al pubblico di un tal tipo di musica, facendo riferimento alla feconda attività musicale bergamasca ricca di grandi nomi di cui quello di Gaetano Donizetti è solamente uno.
Grande spazio è dato anche alla letteratura, materia per la quale riservò sempre grande attenzione e passione: nei suoi scritti si legge spesso il nome di Antonio Ghislanzoni, poeta e librettista, collaboratore di Giuseppe Verdi; parla di Tullia Franzi poetessa di Alzano Lombardo che seguì d’Annunzio a Fiume e che fu grande amica del nostro, il quale mise in musica diverse sue composizioni; parla di poeti dialettali come il già citato Giacinto Gambirasio. È interessante poi notare come, attraverso una leggera ironia, ricorra a diversi elementi di invenzione: per esempio narra di diversi concerti tenutisi al Teatro “Mobile Lignum”, un teatro inesistente il cui nome significa “credenza”. Ma di certo i più interessanti sono le critiche musicali firmate Bortolo Söcalónga: da novello Manzoni dice di aver ritrovato per caso questi manoscritti inediti nei quali l’autore riporta considerazioni sul Donizetti, che considera il più grande musicista bergamasco. Il cronista si lascia andare ai ricordi, come gli incontri e le chiacchierate con il violoncellista Piatti e il violinista Joachim. Chiaramente il nome di Bortolo dovrebbe suonare famigliare, essendo il papà del Giopì, in linea con i continui rimandi, in “Divagazioni Musicali”, alla maschera principe della bergamasca. Nel 1950 divenne insegnante di organo e composizione all’Istituto Donizetti, la sua amicizia con Giacinto Gambirasio fu forse alla base del suo impegno per il Giopì. Scrisse tanta musica, anche per il teatro estensivo, riferendosi agli esseri umani. E, adesso, siamo tutti resilienti o, perlomeno, lo sono quelli che stanno dalla parte giusta della barricata.
Tra i primi a usare la parola in questa accezione psicologica fu l’incolpevole Primo Levi: probabilmente, non immaginava che, qualche decennio dopo la sua dipartita, la palla di neve sarebbe divenuta slavina. La maggior parte di questi vocaboli è entrata a far parte di una sorta di vocabolario del politicamente corretto, che altro non è che un florilegio di banalità, di ovvietà e di sdolcinatezze. Viceversa, noi rivendichiamo il diritto della nostra lingua a essere varia, diretta, chiara nella sua molteplicità: e, se una cosa è brutta lo si dichiari a chiare lettere e, se è bella, del pari lo si proclami apertamente. Insomma, non si parli per stereotipi o, peggio, per modelli lessicali preconfezionati. Libertà ci vuole. E assennatezza e senso della misura. Iniziamo, quindi, così, la nostra piccolissima crociata contro le voghe assurde e la lingua asservita alla moda del momento. Una lingua massacrata, cui vogliamo restituire la sua dignità originaria. E, a chi la usa, la gioia del parlare e dello scrivere senza pastoie che non siano quelle della retorica e della sintassi.