Lo scultore Ugo Riva ragiona su un tema importante, sulla Carrara, la Gamec e il futuro dell’arte
Siamo la terra della commedia dell’arte, dei Tasso, dei Fantoni, dei Baschenis, di Moroni, Donizetti, Olmi... Ma non valorizziamo il nostra patrimonio
Guardiamo in faccia la realtà, la salute della cultura a Bergamo è pessima. Diciamo pure in rianimazione, da almeno un decennio. Sia chiaro, non si tratta di un fenomeno esclusivamente locale, ma la pratica del far cassa a scapito della qualità dell’offerta (“venghino signori, venghino”) anche da noi ha avuto (per ora) la meglio (citare le recenti dimissioni della direttrice della Carrara, Brignoli, sarebbe troppo facile. E noi non spariamo mai sulla Croce Rossa...). L’Italia è il paese che vanta il 50% del patrimonio artistico mondiale ma non è stata in grado di promuoverlo e valorizzarlo efficacemente.
Non parliamo poi della fatica che tocca a chi sceglie di fare della produzione artistica il proprio mestiere. L’assenza assoluta di un progetto nazionale ha lasciato che tutto finisse nelle mani delle gallerie e del mercato privato, abdicando ad un compito fondamentale che era quello di sostenere in campo internazionale la specificità della nostra storia artistica, così manifesta nei grandi musei nostrani e internazionali. Ignoranza. Inadeguatezza. Lobbismo. Esterofilia. Sono gli ingredienti di una ricetta mortale. Siamo tutti globalizzati e interconnessi con l’universo ma ignoriamo la presenza decine di opere preziose dimenticate nel buio dei magazzini, nelle nostre pinacoteche. Solo nel 1974 nasce il Ministero della Cultura, insieme a quello del Turismo. Ma l’Italia non riesce a mettere in campo progetti di stimolo e crescita per i giovani movimenti artistici che compensano questa assenza contaminandosi con quelli internazionali. Con il risultato ovvio della perdita dell’identità e del “segno italiano”. L’arte è figlia della storia di un popolo e si alimenta dentro le radici di questo popolo. Questa mancanza ci ha portato lontani dalla nostre indiscusse capacità tecniche, dal tipicamente italiano “saper fare”, da quel genio millenario che tutti ci riconoscono. Anche una parte della scuola ha avuto le sue responsabilità, soprattutto quando ha fatto da cassa di risonanza ad un’idea “altra” dell’arte, un’idea senza etica ed estetica, senza mestiere e fatica, spesso senza storia e genialità. Ci siamo standardizzati, siamo fruitori del pensiero altrui, insomma siamo scesi dal palcoscenico.
Immagino percorsi che attraversino la provincia. Sul Moroni o sul Colleoni o sui Fantoni o i Baschenis...
L’assenza di un progetto culturale ha azzerato la possibilità di una nostra presenza autonoma e autentica nel panorama artistico mondiale. E dire che l’Italia è stata meta per centinaia d’anni di maestri come Durer, El Greco, Murillo, Velasquez, Rodin, senza dimenticare il “Gran Tour” obbligato per tutti gli artisti europei che ambivano a diventare grandi maestri. Qualche soddisfazione l’abbiamo portata a casa con Burri, Fontana, Marino, Afro. Ma poi siamo precipitati davanti agli struzzi impagliati di Cattelan. Anche Bergamo è figlia di questa narrazione. Ci siamo appiattiti, snobbando quel sano campanilismo che in altri ambiti è stato un valore: l’enogastronomia, la moda, tutto il made in Italy. Tornando a casa nostra, non possiamo non pensare a Bergamo Capitale Italiana della Cultura. Hanno barattato la nostra identità con le ballerine da circo Barnum in Città Alta, con le mostre glamour di giapponesi, cinesi e nordeuropei, e con il pressoché sconosciuto Cecco da Caravaggio, alla Carrara.
Lo so, c’è anche il musical sulla Raffaella nazionale, ma facciamo finta che non sia mai successo, dai. E non mettiamo la testa nemmeno sui pubblici danari investiti in queste perle. È possibile che i nostri illuminati governanti si siano vergognati della nostra storia, dei nostri padri? Bergamo è la città dei Mille, di Francesco Nullo, di Gaetano Donizetti. È la Bergamo di Bartolomeo Colleoni, di Moroni, dei Tasso, Fra Galgario, i Baschenis, e di striscio, anche se non troppo, di Lorenzo Lotto. E ci sono i contemporanei: Giacomo Manzù, Gianandrea Gavazzeni, Cesare Tallone, Alberto Vitali, Alfredo Piatti, Bruno Bozzetto, Andrea Mastrovito, Ermanno Olmi... e tanti altri. Su alcuni di questi pilastri si dovevano costruire percorsi straordinari che avrebbero portato alla conoscenza profonda del territorio e della cultura bergamasca, in primis ai bergamaschi. Immagino un percorso su Bartolomeo Colleoni che parta dalla Cappella dell’Amedeo e che arrivi fino ai possedimenti di Malpaga, Pagazzano, Cavernago, passando per Martinengo, Romano. Un percorso su Moroni ci avrebbe portato da Romano alla scoperta delle valli, degli splendidi Fantoni di Alzano e della Basilica di Gandino. Così pure sarebbe stato con i Baschenis in val Brembana.
E la stirpe dei Tasso? Un percorso su Lotto da San Bartolomeo fino a Trescore. C’è materiale per cinque anni di capitale italiana della cultura. Succede invece che si inventano una mostra sul semi sconosciuto Cecco e prestiamo opere di Moroni, Lotto. Così Brescia allestisce a Palazzo Martinengo un percorso straordinario con Savoldo e compagni e fanno il pienone di visitatori (e biglietti). Non parliamo della grande mostra di Moroni allestita alle Gallerie d’Italia di Milano, appena dopo la chiusura dell’anno di Capitale della Cultura. Pure il Lotto di Trescore ha avuto il suo riconoscimento postumo, ma solo grazie all’interessamento di Ferdinando Noris e dell’Amministrazione locale. Facciamoci ancora del male e pensiamo a cosa è stata la Carrara, la scuola della Carrara.
Davvero nessuno ha pensato ad un’esposizione con i maestri e gli allievi che hanno attraversato le sue aule? Parliamo di Pelizza, Piccio, Diotti, Enrico Scuri, Cesare Tallone, Ponziano Loverini sino a Trento Longaretti e gli allievi. Avremmo affondato le mani, e gli occhi, nel midollo della cultura bergamasca. Hanno scelto la strada più facile, quella scontata e banale, quella delle luci e delle frittelle, delle ballerine e degli “stracci appesi” in via Tasso. La cultura a Bergamo va a braccetto con il turismo: l’importante è far cassa. E si mangia dovunque, non solo in senso figurato; la Corsarola è un fast food a cielo aperto, oltre che un dormitorio mordi e fuggi. Si moltiplicano i B&B, le case vacanza. E le giovani coppie se ne vanno in periferia. Non posso non spendere due parole sul Parco della scultura, nel Palazzo della Provincia. Ol Betù, al secolo Valerio Bettoni, presidente della Provincia dal 1999 al 2009, ci aveva messo l’anima per realizzare questa meraviglia che vanta una serie di opere di alcuni fra i migliori scultori del ’900. Non credo ne esista un altro simile in tutta Italia. Se vi capita di passare davanti al Palazzo di via Tasso noterete il cancello sempre chiuso, e così è stato anche nell’anno della capitale della Cultura. Devi chiedere ai poliziotti che presidiano l’entrata per vederlo, e non sempre è possibile. Ma questo è un problema facilmente risolvibile, basta aprire il cancello di via Camozzi, mettere due panchine e renderlo così facilmente fruibile ai cittadini.
Ma ci deve pensare il cittadino comune a queste cose o chi è stato eletto per amministrare al meglio i beni della città e della Provincia? Anche qui è questione di uomini e di donne, non di colore politico. Fatemi dire due parole anche sulla Gamec. È un oggetto misterioso, è stato così fin dall’inizio, il lontano 1991. Lo sguardo dei diversi responsabili che l’hanno gestita si è sempre rivolto (tranne rari casi) fuori dal contesto locale. L’importante era che i sedicenti artisti avessero un nome esotico, straniero, ma anche italiano, purché non bergamasco. Ho chiesto in diverse occasioni il numero di visitatori dopo le inaugurazioni, tutti molto avvilenti. L’ultima volta che ci ho messo piede l’addetta alla cassa mi ha risposto che non poteva segnalarmi il numero. Top Secret. Sarebbe interessante verificare se è vera la voce che gira sul contatore che sta a Palazzo della Ragione: sembra sommi i visitatori lì gratuiti a quelli di San Tomaso. Così fosse sarebbe un trucchetto mica da poco e una bella presa per i fondelli. Troppo facile gonfiare i numeri con i frequentatori di Piazza vecchia. Il contemporaneo è contemporaneo, ora. Domani non lo è già più.
Durante la capitale della cultura ci siamo dimenticati dei nostri tesori per una specie di “esterofilia”
Cambia protagonisti e linguaggi con una velocità che noi non sosteniamo. E poi costa, e tanto. Ma come si può pretendere di essere competitivi con Punta della Dogana o Palazzo Grassi di Pinolt? Bisogna avere risorse enormi e sede a Venezia. Nemmeno il Maxxi di Roma gli fa concorrenza deve mettersi alla bocca di tutto per attirare gente e far quadrare i conti. Figuriamoci la Gamec. La sua esistenza non ha senso in un contesto cittadino che non riesce a star dietro nemmeno all’ordinario, nel settore della cultura. La cosa più preoccupante e deprimente, è che stanno investendo in una nuova sede di cui si dibatte sulla futura forma (è una città da archi star che non si sono però espresse di fronte al Gate imbarazzante accanto alla sede del palazzo comunale, costato “solo” 500mila euro...), ma non sull’utilità e sui contenuti.
Da anni sostengo pubblicamente che l’assessore alla cultura del comune dovrebbe avere un’idea (e una conseguente formazione) sul modello culturale che vuole realizzare. Condividerla con il direttore di turno che non deve sentirsi libero di giocare solo con le sue fantasie estetiche. E magari che tenga anche conto delle tre scuole d’arte che abbiamo: Carrara, Fantoni e Manzù, per dare forma ad una sinergia tra chi coltiva talenti e chi gli apre le prime porte verso il mondo. Siamo in presenza di centinaia di giovani che tutti gli anni si diplomano e poi una volta usciti non sanno come fare a intraprendere la professione artistica. Diventerebbe un circuito virtuoso che obbligherebbe anche gli insegnanti a dare il meglio di se tornando ad essere i maestri che gli allievi una volta terminati gli studi citano nei loro curriculum; ai miei tempi succedeva. E mettiamo mano alla comunicazione! Decine di manifesti in città con messaggi incomprensibili alla totalità delle persone: Pensare come una montagna.
Per non parlare di quelli in sola lingua inglese. Siamo una città che vive ormai di selfie, di chirurgia plastica, di sorrisoni su dentature smaglianti. Ma cosa stai comunicando a me automobilista, operaio, nonna? Cosa stai dicendo a tutti quelli (la maggioranza) a cui la cultura non arriva facilmente? I fragili, i giovani e la loro solitudine, le famiglie immigrate di seconda generazione, i poveri. È anche a loro che va riservata la tua comunicazione. E la cultura. C’è tanto da fare, da salvare, come la ex chiesa della Maddalena che rischia la chiusura, per cominciare. Spingiamo l’amministrazione ad un cambio di rotta rispetto alla attuale direzione esterofila della cultura, obbligandola ad affidare compiti specifici di rilancio anche a chi questo territorio lo conosce ed ha i numeri per saperlo fare al meglio. Sogno di veder ripristinato il Premio Bergamo, aperto ad artisti locali, nazionali ed esteri. E per favore, non fatemi più firmare appelli all’amministrazione, non servono. Piuttosto metteteci la faccia e scendete in piazza, altrimenti quando arriverà la banana appiccicata al muro, non dovete lamentarvi.