Il museo etnografico di Comenduno con il direttore Franco Innocenti.
Il primo nacque a Zogno nel 1979. Dopo la sbornia del boom economico e della modernità è nata una nostalgia: si iniziava a riscoprire la tradizione.
Erano i primi anni Sessanta quando “cominciarono a scomparire le lucciole” e nello spazio di un mattino “le lucciole non c’erano più”. Metafora alla quale fece ricorso Pier Paolo Pasolini per descrivere quella che lui chiamò la “mutazione antropologica degli italiani”. Alla metà degli anni Cinquanta si contavano ancora più contadini che operai. L’Italia non poteva essere definita un Paese rurale, ma valori, cultura, relazioni interpersonali risentivano per tanta parte del mondo rurale e del suo modo di vivere. Tale era la povertà che nel 1952 il Parlamento aveva avviato una “Indagine sulla miseria”, da cui uscì un quadro desolante delle condizioni abitative, alimentari, igienico-sanitarie di gran parte della popolazione. Milioni di abitazioni non disponevano ancora di acqua corrente e di servizi igienici, né erano allacciate alla rete elettrica. In interi quartieri fatti di case popolari a ringhiera l’acqua sgorgava da una fontanella in comune fra tutte le famiglie del ballatoio, in un angolo del quale si apriva un’unica latrina, anch’essa in comune.
Un letto antico con la “monega”.
Fra gli anni Cinquanta e Sessanta, nove milioni di italiani si lasciarono alle spalle la regione d’origine per emigrare dal Sud al Nord, ma anche da Veneto e Friuli verso il triangolo industriale. Salivano sui treni con le loro valigie di cartone chiuse con lo spago e dai finestrini guardavano perdersi in lontananza il piccolo paese. Chi ebbe la fortuna di agguantare una casa popolare a riscatto, in periferia, si trovò a doverla arredare e i mobili in formica acquistati a rate presero il posto di madie e credenze. Fino ai primi anni Sessanta, gli elettrodomestici bianchi - lavatrice, frigorifero, persino il fornello a gas e dal 1954 il televisore con un unico canale in bianco e nero - rappresentarono un sogno che appena una esigua minoranza di popolazione urbana poteva realizzare, ma giù in strada, parcheggiate lungo il marciapiede, comparivano le prime utilitarie, la Fiat Seicento e poi la Cinquecento, con il portabagagli sul tettuccio.
Eppure, trascorse il tempo di una generazione appena e alla metà degli anni Settanta l’Italia era diventata una potenza industriale, tanto da essere ammessa al tavolo del G7. I consumi familiari erano stati soddisfatti e, proiettati nella post-modernità, ci si lasciava sedurre dal richiamo dei nuovi consumi individuali. Nelle cascine le luci si erano spente e non c’erano più nonne che recitavano il Rosario, né c’erano pannocchie da derÖscà o scarfoià. Le avevano abbandonate oltre quattro milioni di contadini e quelli rimasti, diventati agricoltori, nei campi si recavano in automobile senza più segnarsi quando passavano davanti a una tribulina. Le mani non puzzavano più di stalla, né si calzavano gli zoccoli che le ragazze mal tolleravano già al tempo delle balere; figurarsi ora nelle rutilanti discoteche.
Il grande mantice di Zogno
Le radici erano state strappate e “là dove c’era l’erba ora c’è una città” cantava il ragazzo della via Gluck... ma lo diceva mentre piangeva”. Benessere, luci al neon, telecomando di televisori dai molteplici canali a colori, capi d’abbigliamento firmati abbagliavano i più. Capitava che un agricoltore facendoti visitare la vecchia cascina ristrutturata, ormai senza più stalla e fienile, sorvolasse su angoli che potevano richiamare alla mente particolari di cui si vergognava, come il luogo dove si teneva il ledàm o l’angolo con il cagadùr.
Non fu così ovunque, tuttavia, in particolare a Bergamo dove il tramonto della civiltà contadina e l’imporsi di quella urbano-industriale si dispiegò in tempi più lunghi, senza recidere troppe radici. Fu tra le due guerre mondiali, infatti, che si verificò, come solo in un pugno di altre province, il sorpasso degli operai sui contadini. Ma, soprattutto, l’abbandono dei campi non coincise con un tumultuoso inurbamento; la modernità si affermò quasi di soppiatto, in maniera assai meno traumatica. Si mise da parte l’aratro per indossare la tuta blu o salire sui ponteggi dei cantieri edili, ma continuando a portarsi addosso forti tracce del passato, la visione lunga del tempo tipica dell’universo contadino, senza lasciarsi sedurre più di tanto dal tempo breve della civiltà urbano-industriale.
Le lucciole erano scomparse da pochi anni quando, a Zogno nel 1979, venne inaugurato il primo Museo etnografico bergamasco. Negli anni successivi, piccoli gruppi di volenterosi si costituirono in diversi paesi della provincia, accomunati dall’intento di non smarrire la memoria del passato: tradizioni, feste, musica, racconti e fiabe, il dialetto stesso, inclusi attrezzi, arredi domestici nei quali si condensa tanta parte della cultura non solo materiale del mondo popolare. Non storici di professione ma storici scalzi, animati da un forte senso civico, dall’attaccamento orgoglioso alle proprie radici, consapevoli che la velocità delle trasformazioni in atto minacciava di spezzare la continuità generazionale, timorosi che la vita vissuta in gioventù si spegnesse per sempre come una stella che scompare.
Ferri da stiro della tradizione
Quei minuscoli cenobi di volenterosi presero a raccogliere testimonianze orali, fotografiche, arredi domestici, attrezzi, giocattoli. Il difficile passo successivo consistette nel cercare sedi idonee dove collocare quanto raccolto e trasformare meri insiemi di oggetti, non più legati alla vita quotidiana di chi li aveva usati, in raccolte museali coerenti, dotate di idonei apparati illustrativi affinché anche il visitatore più giovane, ignaro dei mestieri artigianali di un tempo, del lavoro e della vita rurali, potesse e possa tuttora cogliere il significato, il senso, di quanto esposto.
Oggi fra l’Adda e l’Oglio di musei etnografici bergamaschi se ne contano venticinque, per la maggior parte ubicati nelle valli, cui si aggiungono dieci Case ed edifici musei, nonché undici ecomusei, sintesi, questi ultimi, di natura e cultura. Bergamo si colloca, quindi, fra le province italiane più ricche di questi singolari scrigni storici il cui compito primo consiste, appunto, nel salvaguardare la memoria delle comunità locali; testimoni della cultura popolare orobica. Non tutti riescono a dare la parola con uguale efficacia a materiali altrimenti muti, ma tutti sono accomunati dal medesimo intento.