Iniziamo con calorosi ringraziamenti al (purtroppo) dimissionario Direttore Artistico Francesco Micheli, creatore di questo Festival, che con la sua trascinante ed instancabile energia è riuscito a smuovere i torpori artistici di una città incurabilmente provinciale. Ci lascia con una gemma da conservare nell’anima: un «Roberto Devereux» da incorniciare proprio come ha fatto la scenografa e costumista Katie Davenport con effetti di luce variabile.
Un ulteriore episodio riguardante la dinastia Tudor, tanto cara a Donizetti, reso in versi da un grande Salvatore Cammarano che ruota attorno ad un quartetto regale inestricabilmente legato da vincoli d’amore, amicizia e devozione e che folli gelosie condurranno ad un tragico epilogo, complice l’inarrestabile scorrere del tempo. Opera di pura essenza romantica pur con radici belcantistiche. Un perfetto ingranaggio che con una dinamica implacabile conduce al bagno di sangue finale. Tutto vi è perfettamente calibrato non solo grazie ai versi essenziali ma soprattutto grazie a pagine musicali di una carica emozionale degna di un genio che ben conosceva l’animo umano anche il più recondito. I personaggi: una Regina potente ma anziana; un suo giovane «favorito» in disgrazia politica il cui cuore batte ora per Sara oramai sposa al Duca di Nottingham per volere regale.
Retroscena: una sciarpa data come pegno d’amore che intercettata scatenerà gelosie così incontrollabili da far sì che l’anello che potrebbe salvare una vita giunga troppo tardi. Roberto è già decapitato, Elisabetta furente condanna al capestro anche la coppia colpevole del mancato recapito. Poi, vinta soprattutto come donna oltre che da regina, abdica con il gesto ormai iconico del togliersi la parrucca... rivelando con la vecchiaia la sua sconfitta più umiliante. Al varco era attesa la nuova dea belcantistica Jessica Pratt, voluta dal direttore Riccardo Frizza, in una parte secondo alcuni non perfettamente a lei idonea. Eppure, pur non avendo la vocalità prettamente drammatica per questo ruolo, il soprano, ammirata da sempre soprattutto in ruoli elegiaci di follie estatiche, ha saputo dare alla sua Elisabetta un’aura più tormentata, vittima di reminescenze amorose ormai sopite per sempre, incalzata sempre più dall’inesorabile passare del tempo in un’atmosfera plumbea di «memento mori»...
I grandi artisti, sanno sempre trovare un’anima interpretativa personale e lei ci regala una scena finale di autentico pathos e rara commozione, ricordandoci che la caducità umana è il destino di tutti noi. Ottima anche la prova di John Osborn, un vero eroe romantico, che ha ben reso lo strazio di un uomo dilaniato dagli affetti contrastanti in combutta nel suo stesso animo. Il tenore, grazie ad una preziosa tecnica ed una voce estremamente duttile ha reso struggente sia la scena d’addio con Sara, ma soprattutto l’intensissima scena dal carcere con rarefatti passaggi cangianti. Altro debutto eccelso di ruolo quello di Raffaella Lupinacci, una Sara quasi antagonista alla regina con una vocalità intensa sorretta da grande tecnica ricca di coloriture, dando un vero spessore al suo personaggio. Per il Duca di Nottingham, in scena l’ottimo baritono Simone Piazzola, ammirato prima per i nobili accenti d’amicizia poi con la rivelazione del presunto tradimento nello scatenare la sua ira più cupa.
Da citare il Lord Cecil di David Astorga e Sir Gualtiero Raleigh di Ignas Melnikas. Inappuntabile il Coro dell’Accademia Teatro alla Scala diretta dal Maestro Salvo Sgrò, come l’Orchestra Donizetti Opera. Da sottolineare la grande sensibilità del Direttore Riccardo Frizza nel dirigere quest’opera da lui tanto amata. Frizza, da vero donizettiano, si mette soprattutto al servizio delle voci, sia nei momenti più delicati con atmosfere rarefatte quali perfetti e variegati tappeti a sorreggere le voci sia capace poi di virili, nervosi e precisi interventi di forza dinamica nei momenti più tesi. Da ricordare che quest’opera così fosca arriva dopo uno dei momenti più tragici di Donizetti stesso.
La regia a cura di Sthephen Landgridge (direttore artistico del Festival di Glyndebourne) non era particolarmente invasiva salvo un paio di cadute di stile. I costumi di Katie Davenport invece erano giustamente evocativi ed essenziali come le sue scene: un omaggio ai fondali di legno neri tipici del teatro elisabettiano in cui spiccavano a volte un trono o un letto rosso laccato. Il potere contro l’amore. Inquietante il pupazzo-scheletro alter ego di Elisabetta creato da Poppy Petsatodi, che fra fiori, crani e clessidre ha contribuito a creare un continuo Vanitas vanitatum et omnia vanitas! Morale: onore alla potenza emotiva della grande musica che sa insinuarsi ancora nel cuore a quasi 200 anni dalla prima a Napoli 1837.